#AESASpazio: Il rientro atmosferico tra rischi e opportunità

A tanti abituali frequentatori dell’aeroporto di Torino Caselle sarà capitato almeno una volta di imbattersi in uno strano velivolo nell’area check-in, un mezzo bianco e nero che riporta i segni di un utilizzo intenso e prolungato. Questo misterioso rottame spaziale è in realtà un mezzo straordinariamente complesso, che sfida la nostra capacità di produrre un oggetto in grado di resistere a sforzi termici e meccanici elevatissimi: stiamo parlando di un modulo di rientro atmosferico.

La fase di rientro è, per qualche ignoto motivo, a volte accantonata in favore di altre parti di una missione spaziale. Per quanto ciò sia comprensibile, data la voglia di tutti noi di scoprire che succede nello spazio più profondo, è tuttavia auspicabile che i preziosi strumenti utilizzati o, eventualmente, gli equipaggi coinvolti, tornino in sicurezza a casa. Ciò, come vedremo, presenta delle sfide tecniche non indifferenti, e decenni di sviluppo sono stati necessari per giungere a soluzioni innovative e affidabili.

Ma facciamo prima un passo indietro, e torniamo al mezzo in esposizione a Caselle: il suo nome è IXV (Intermediate eXperimental Vehicle), ed è il risultato dello sforzo congiunto di ESA e Thales Alenia Space di creare un dimostratore di rientro atmosferico da un’orbita LEO (orbita bassa terrestre). Da un punto di vista tecnico, la missione prevedeva il rilascio dello “spazioplano” di circa 1800 kg da parte di Vega (il lanciatore da trasporto di piccole dimensioni dell’ESA) da un’altitudine ci circa 320 km, in seguito al quale la traiettoria balistica avrebbe raggiunto un apice di 400 km da terra; l’atterraggio sarebbe infine avvenuto nell’Oceano Pacifico.

Dettaglio tecnico fondamentale è che questa navicella è un vero e proprio velivolo portante in grado di modificare il proprio assetto mediante flap e propulsori appositi, il che lo rende una sorta di Space Shuttle in miniatura, ma privo di ali.

L’11 febbraio 2015 la missione è andata a buon fine in seguito al lancio avvenuto presso lo spazioporto europeo di Kourou, in Guyana Francese. Dopo un volo di circa 100 minuti, un sistema di paracaduti multistadio ha permesso a IXV di rallentare partendo da una velocità di 7.5 km/s (o 27 000 km/h) per toccare in seguito la superficie dell’oceano in sicurezza. La navigazione, totalmente autonoma, è stata monitorata dall’ Advanced Logistics Technology Engineering Centre (o ALTEC) di Torino, con l’ausilio di due stazioni di terra localizzate in Africa e di un’altra sulla nave che si è poi occupata di recuperare il veicolo che galleggiava in mezzo all’oceano. Il rientro non è stato privo di momenti in cui si è dovuto trattenere il fiato: nei venti minuti di rientro, il plasma formatosi a ridosso della navicella ha impedito alle stazioni di terra di ricevere alcuna informazione da IXV, che ha ripreso a dare segnali di vita poco prima dell’ammaraggio, a conferma della buona riuscita della missione. Ciò è stato poi ulteriormente confermato dal recupero della telemetria del volo e dei dati raccolti da centinaia di sensori disposti sul velivolo, che si sono mostrati in ottime condizioni.

Da quanto visto finora, si può dire in sostanza che il progetto di un qualsiasi mezzo di rientro atmosferico deve affrontare tre aree di sviluppo molto impegnative:

  • Aerotermodinamica: le altissime temperature raggiunte nelle vicinanze del veicolo possono portare a dissociazioni molecolari di azoto e ossigeno, con una improvvisa complicazione della modellazione fisica del comportamento di questi gas;
  • Guidance, Navigation and Control (GNC): l’accoppiamento di GPS e unità di misura inerziale (IMU) per la verifica della posizione può assicurare, insieme ad appositi algoritmi, un corretto controllo dell’assetto, in modo tale da garantire un corridoio di discesa a un angolo ben preciso: un angolo troppo elevato porterebbe a bruciare il veicolo, uno troppo basso a non centrare il luogo di atterraggio;
  • Protezione termica: chiunque abbia avuto la fortuna di trovarsi vicino a uno Space Shuttle avrà notato che la pancia nera della navicella è in realtà un mosaico di migliaia di piastrelle il cui materiale è studiato appositamente per resistere alle temperature di rientro, che raggiungono i 1700 gradi Kelvin. Le capsule di rientro come le Soyuz, invece, utilizzano materiali detti ablativi, che vengono erosi dalle temperature estreme e aiutano a dissipare i flussi di calore diretti verso
    l’interno.

Lo sviluppo di nuove tecnologie nell’ambito dei mezzi di rientro atmosferico non si è fermato con IXV, ma si è anzi rinnovato con nuovi progetti attualmente in via di sviluppo. Da lato ESA, la stessa missione IXV è stata occasione di raccogliere, grazie alle centinaia di sensori disposti sullo spazioplano, una gran mole di dati che torneranno di grande ausilio nel nuovo step del progetto: Space Rider. Si tratta di un vero e proprio laboratorio automatizzato nel quale si svolgeranno, nell’arco di circa due mesi, innumerevoli esperimenti in svariati campi. La tecnologia di rientro testata con IXV potrà essere sfruttata per fare atterrare il veicolo su una pista e recuperare i risultati degli esperimenti, e garantisce anche la riutilizzabilità di questa piattaforma.

Dall’altra parte dell’Atlantico invece i colleghi americani della NASA si stanno occupando di un metodo di rientro ancora più peculiare: il progetto LOFTID (Low-Earth Orbit Flight Test of an Inflatable Decelerator) propone un nuovo tipo di “aeroshell” (cioè, di scudo termico) che sia gonfiabile. Questo accorgimento permetterebbe superfici di impatto decisamente maggiori (con diametri che possono raggiungere i 10 metri), aumentando la resistenza aerodinamica e sbloccando così la possibilità di utilizzo di simili tecnologie in pianeti come Marte o Titano in cui l’azione frenante dell’atmosfera è complicata dalla sua esigua densità. Allo stesso tempo, si potranno riportare sulla Terra payload di masse superiori. Una decelerazione anticipata negli strati atmosferici più elevati permette tra l’altro di entrare nelle zone più basse senza incorrere negli sforzi termici estremi che si avrebbero a velocità maggiori. Il primo test di questo rivoluzionario mezzo, avvenuto nel novembre del 2022, è stato un successo.

In conclusione, il rientro atmosferico, con i suoi rischi e le sue sfide, è davvero uno dei momenti più tesi e critici di una missione spaziale che vuole riportare a casa un carico o un equipaggio. Risulta evidente in questo ambito, come in tanti altri, che solo la collaborazione tra più paesi e aziende a livello europeo può portare a risultati soddisfacenti, che permettono allo stesso tempo a realtà come quella torinese un posizionamento avanguardistico sulla scena globale. La speranza è che sia questa la lezione più importante di IXV e simili, in attesa delle nuove sfide che ci attendono.

A CURA DI
Mattia Mocci


FONTI
https://www.nasa.gov/mission/low-earth-orbit-flight-test-of-an-inflatable-decelerator-loftid/
https://www.esa.int/Enabling_Support/Space_Transportation/IXV
https://www.torinotoday.it/cronaca/alenia-thales-sagat-exomars-programmi-spaziali.html