#AESASpazio: NUCLEAR PULSE PROPULSION: IL PROGETTO ORION
- Giulia Belviso
- 20 ore fa
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Nel XX secolo numerosi furono i progressi raggiunti nel viaggio dell’uomo e della sua influenza al di fuori dell’atmosfera. La propulsione chimica dei lanciatori stava conquistando grandi miglioramenti, ma il problema era uno: l’equazione di Tsiolkovski, anche nota come “equazione del razzo”.
Per i lanciatori chimici questa costituiva e costituisce tutt’oggi un limite prestazionale insuperabile; a causa del loro intrinseco impulso specifico relativamente basso (≤ 450s): per ottenere grandi variazioni di velocità del razzo, è richiesta una quantità di propellente enorme se comparata alla massa del payload trasportato (dipendenza logaritmica dal rapporto di massa).
Tuttavia, ben 70 anni fa, nel pieno della guerra fredda, un gruppo di scienziati pilotato da Ted Taylor e Freeman Dyson superò questo limite teorico con un progetto tanto visionario quanto controverso: il progetto Orion. L’idea alla base di quest’ultimo era di muovere lo spacecraft detonando veri e propri ordigni nucleari in sequenza: questa è definita come Nuclear Pulse Propulsion (NPP).


1- Orion conceptual design
Il meccanismo di funzionamento dei motori Orion si basava sull’espulsione a intervalli regolari di tempo di una serie di ordigni a fissione nucleare (Pulse units) con potenze dell’ordine di 0.1-1 kilotoni l’una, immagazzinate nel corpo centrale del razzo.
Questi venivano detonati, tramite apposito cannone che attraversava assialmente il lanciatore, a qualche decina di metri dalla piastra di spinta (pusher plate) posta a poppa del razzo.
Le singole unità di impulso (ovvero i singoli ordigni) erano cariche sagomate e il loro involucro era progettato per riflettere l’energia nel channel filler di seguito raffigurato, diffondendola rapidamente fino a spingere il denso tappo di propellente verso la piastra di spinta. Il materiale scelto come propellente fu il tungsteno, per l’elevata densità e l’alto punto di fusione ed ebollizione.

Tuttavia era il pusher plate a rappresentare la vera sfida ingegneristica del progetto: esso avrebbe dovuto resistere agli elevatissimi e periodici flussi termici e al forte impatto dell’onda d’urto, convertendo l'energia e la quantità di moto del plasma in spinta meccanica. La piastra, montata sul retro dell’astronave, era un disco di grande entità e peso, costituito da acciaio ad alta resistenza o leghe di berillio e rame.
Per limitarne il danneggiamento dovuto agli ingenti carichi operativi, la piastra doveva essere rivestita con uno strato ablativo (grafite o olio lubrificante): ogni esplosione ne vaporizzava un piccolo strato, e nel caso di olio, questo sarebbe stato eiettato periodicamente sulla piastra dopo ogni ciclo di vaporizzazione.
L’urto veniva infine assorbito da un complesso sistema di ammortizzatori (tipicamente doppi, idraulici o pneumatici), che trasformava la serie di picchi impulsivi in un’accelerazione quasi continua e compatibile con la presenza di un equipaggio o carichi sensibili.

Le prestazioni teoriche erano eccezionali, con un impulso specifico stimato tra 2.000 e 10.000 secondi, superando quindi nettamente il limite della propulsione chimica, che raggiunge soli 450s.
La spinta prodotta sarebbe stata potenzialmente dell’ordine di decine di meganewton, sviluppando la capacità di accelerare veicoli con masse di migliaia di tonnellate. Con tali parametri, Δv dell’ordine di decine di km/s sarebbero risultati almeno teoricamente realizzabili, aprendo la strada a missioni interplanetarie rapide e, in termini estremi, a viaggi interstellari capaci di raggiungere frazioni significative della velocità della luce.

Tra il 1958 e il 1965 il gruppo di scienziati ideò una serie di classi di veicoli radicalmente diverse tra loro per dimensioni, di cui si possono citare le tre principali, dalla meno alla più ambiziosa.
Si parte dall'Orion "Piccolo", ovvero la versione più contenuta: con un diametro di circa 17–20 metri e una massa di circa 300 tonnellate, questo era concepito per lanci in orbita terrestre bassa (LEO) e per i test iniziali. Nonostante le dimensioni ridotte, il suo lancio dalla Terra avrebbe posto enormi problemi ambientali legati alle radiazioni.
Il vero obiettivo del progetto era però la classe Orion "Intermedio" (o Mid-range), veicolo ideale per l'esplorazione interplanetaria con equipaggio. Con una piastra di spinta di circa 40 metri di diametro e una massa tra le 1.000 e le 2.000 tonnellate, prometteva prestazioni rivoluzionarie: con un impulso specifico tra i 4.000 e 6.000 secondi, si stimava che avrebbe potuto compiere un viaggio di andata e ritorno su Marte in meno di un anno.
Infine, l'apice teorico, ma quasi fantascientifico del progetto, era l'Orion “Super”, lanciatore di dimensioni colossali (milioni di tonnellate) pensato per viaggi addirittura interstellari. Si ipotizzava che potesse raggiungere l'8-11% della velocità della luce, rendendo l'esplorazione stellare una possibilità.
L’idea teorica dietro agli studi di questo gruppo di scienziati, trovò applicazione in numerosi test pratici, i quali culminarono nel 1959 con il lancio di “Hot Rod”, che arrivò a 100 m, spinto da 6 “pulsazioni nucleari” (link al video nelle fonti).

Il progetto Orion rimane il simbolo di un sogno legato un’epoca molto distante dalla nostra, nella quale con studi visionari, ma quasi sovrumani, si andava forse oltre la prudenza scientifica.
Purtroppo però i problemi etici e politici ad esso connessi prevalevano nettamente sulla curiosità e il progresso scientifico che lo caratterizzavano, in un periodo in cui test nucleari di entità sempre maggiore stavano facendo discutere l’opinione pubblica globale; nel 1963 il Partial Test Ban Treaty vietò infatti le esplosioni nucleari nello spazio e nell’atmosfera e nel 1965 il progetto venne sospeso definitivamente.
L’idea di utilizzare questo tipo di propulsione in atmosfera o in orbite basse è tutt’oggi non contemplato, poiché un malfunzionamento, anche se improbabile, potrebbe avere conseguenze catastrofiche sul pianeta, o, a quote maggiori, sulla rete satellitare ormai indispensabile per le nostre vite. Questo è dovuto proprio alla notevole quantità di ordigni nucleari che il razzo trasporterebbe al suo interno.
Tuttavia il concetto alla base del progetto non fu totalmente scartato: questo fu ripreso in studi dedicati alle sole fasi avanzate di missioni interplanetarie (con un lancio iniziale a propulsione tradizionale) o con tecnologie meno rischiose, ma ancora in fase di ricerca, quali il Mini-Mag Orion (2000), che sostituisce gli ordigni a fissione con un sistema a fusione, con impulsi specifici stimati oltre i 10000s.
Per concludere si può affermare che Orion abbia lasciato un’eredità concettuale importante: esistono potenziali tecnologie (in questo caso gli impulsi nucleari) in grado di offrire una densità energetica e una capacità di spinta ineguagliabili dalla propulsione chimica; per questo il progetto rappresenta ancora oggi un riferimento per studi avanzati sulle possibili architetture di missioni destinate all’esplorazione dello spazio profondo.
A CURA DI
Giulia Belviso
FONTI ARTICOLO: https://ntrs.nasa.gov/api/citations/20000096503/downloads/20000096503.pdf https://en.wikipedia.org/wiki/Project_Orion_(nuclear_propulsion) http://large.stanford.edu/courses/2010/ph240/stetler2/ https://en.wikipedia.org/wiki/Mini-Mag_Orion https://youtu.be/uQCrPNEsQaY?si=M69MooWaNY6yDeM6
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