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#AESASpazio: In orbita, il corpo va in tilt!

Nel prossimo futuro sembra che l’essere umano tornerà sulla Luna, stavolta non solo per brevi missioni, ma con lo scopo di colonizzare alcuni siti per condurre svariati esperimenti. È già in costruzione il Lunar Gateway, la stazione spaziale che orbiterà intorno alla Luna, ma sono diversi i progetti e gli studi per la realizzazione di villaggi lunari, cui si aggiungerà anche la futura esplorazione del pianeta Rosso. Tuttavia, la permanenza in condizioni di microgravità e gravità ridotta, come già osservato, causerà alterazioni al corpo umano le cui pericolosità e irreversibilità non sono ancora del tutto note.


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Three, two, one, Ignition, lift off! Il lanciatore si alza in volo: durante il lancio gli astronauti assumono una posizione supina con le gambe reclinate a 90° e più alte del torace: questa postura facilita la tolleranza alle accelerazioni e provoca lo spostamento dei fluidi verso la regione centrale del corpo.


Nello spazio, infatti, i liquidi non sono più concentrati nelle gambe, come avviene a Terra per via della gravità, ma si distribuiscono uniformemente nel corpo. Nel giro di poche ore si osserva uno spostamento di circa 2 litri di liquido verso il torace, con sintomi immediati come ad esempio: senso di pienezza della testa, congestione, aumento della pressione oculare, rigonfiamento del volto e riduzione del volume degli arti inferiori. L’aumento di volume centrale attiva sensori che identificano nella variazione un eccesso di liquidi, che vanno rimossi: gli astronauti hanno bisogno di un bagno, e anche in fretta! Nel tempo il sistema cardiovascolare si riadatta a questo nuovo equilibrio, caratterizzato da un volume ematico complessivamente inferiore, una più marcata centralizzazione del sangue e un generale rilassamento del tono vascolare, una condizione che ricorda quella di una persona sedentaria. Con il ridursi del volume ematico il cuore non è più sollecitato a pompare contro la gravità, il suo lavoro diventa simile a quello in posizione supina permanente e si osserva una riduzione della dimensione e della forza delle fibre cardiache; in altre parole, il miocardio) di un astronauta rischia di atrofizzarsi. Nulla di pericoloso per le missioni che si concludono entro l’anno, perché una volta rientrato a Terra, si è osservato un recupero abbastanza rapido, ma per missioni di lunga durata, l’atrofizzazione rappresenterebbe un problema non indifferente!


Ma i problemi non finiscono qui: dopo una breve esposizione alla microgravità la capacità fisica all’atterraggio può ridursi di circa il 20%; per missioni più lunghe la capacità aerobica cala notevolmente se l’equipaggio non si allena regolarmente, e al ritorno sulla Terra l’esposizione alla gravità comporta un’ulteriore perdita di performance. L’apparato muscolare presenta anch’esso cambiamenti marcati, con gli arti inferiori che perdono volume e forza in misura significativa, portando ad una riduzione della circonferenza delle gambe dell’ordine del 20-30 per cento dovute sia allo shift di fluidi che all’atrofia. Nello spazio, poiché i muscoli non devono contrastare la gravità, complessivamente, l’attività muscolare è insufficiente, paragonabile a uno stile di vita sedentario, e questo facilita l’atrofia. Le attività extraveicolari, che richiedono sforzi intensi, possono consumare massa muscolare se l’alimentazione non compensa adeguatamente il fabbisogno energetico.


L’atrofia aumenta la probabilità di lesioni e il dolore al rientro: l’apparato scheletrico subisce demineralizzazione, osservabile soprattutto agli arti inferiori, e il calcio liberato tende a essere escreto con le urine, aumentando il rischio di calcoli renali. Le cause principali sono il ridotto assorbimento di vitamina D e la mancanza di stimoli meccanici che promuovono la formazione ossea.


I dati raccolti finora si estendono fino a missioni di un anno e non mostrano un chiaro plateau; proiettando questi trend su missioni più lunghe, come un viaggio su Marte della durata di alcuni anni, la perdita di massa ossea potrebbe portare fino a valori paragonabili a quelli di persone molto anziane, con aumento del rischio di fratture in ambienti dove l’assistenza è limitata. In poche parole, esporsi alla microgravità significa invecchiare precocemente e anche male: non proprio un elisir di giovinezza!


Al rientro gli astronauti sono suscettibili di svenimento per più cause: lo spostamento del sangue verso le gambe svuota la regione centrale e può causare ipotensione; il cuore, parzialmente atrofizzato e i barorecettori (sensori di pressione responsabili di attivare una serie di meccanismi di autoregolazione quando si cambia postura, ad esempio aumentando la frequenza cardiaca), la cui risposta è ridotta e rallentata, non mantengono adeguatamente la pressione centrale. Questi sono alcuni dei motivi per cui gli astronauti non riescono a stare in piedi e devono essere trasportati come un sacco di patate.


Il sistema neurosensoriale e vestibolare subisce alterazioni che influenzano equilibrio e controllo posturale: i recettori otolitici, che a Terra codificano la gravità e le traslazioni, non percepiscono correttamente l’inclinazione della testa in microgravità; nel lungo termine il cervello si riadatta e utilizza gli otoliti principalmente per le traslazioni. Al ritorno, quando gli otoliti tornano ad essere stimolati dall’inclinazione, il sistema centrale può non elaborare adeguatamente questi segnali, generando disorientamento. Le conseguenze includono ridotta stabilità posturale, instabilità nell’atto di camminare e maggiore rischio di cadute al giorno del rientro, condizioni confrontabili a quelle di persone molto anziane, o ubriache! Inoltre gli astronauti sono soggetti a Space Motion Sickness, una serie di disturbi simili a quelli causati dal mal di mare o d’auto, dovuti all’esposizione ad un ambiente gravitazionale diverso.


Il sistema corpo umano nello spazio fa acqua da tutte le parti: gli ingegneri che ci hanno progettato migliaia di anni fa, per permetterci di vivere a Terra, non avevano considerato la possibilità che un giorno gli uomini avrebbe deciso di abbandonarla.

Alcune conseguenze sono ancora in fase di studio, attraverso esperimenti condotti sia a Terra che in volo: una problematica che desta particolare preoccupazione, tanto da aver fatto accendere il campanello rosso tra le agenzie spaziali è la SANS (Spaceflight-Associated Neuro-ocular Syndrome), una condizione che causa alterazioni visive e strutturali dell’occhio e del nervo ottico, dovuta, si ritiene, all’aumento della pressione intracranica.


Per approfondire gli effetti del volo spaziale esistono diversi esperimenti: uno di questi è il “Bed rest” o lettino a riposo, dove coraggiosi volontari sono invitati a rimanere in posizione supina per svariati giorni, anche mesi (ci vorrebbe proprio!) in modo da simulare una condizione simile a quella in microgravità, essendo la distribuzione di fluidi nel corpo paragonabile poiché il gradiente gravitazionale nel piano trasversale è trascurabile; inoltre l’inattività prolungata ha effetti tangibili sulla muscolatura e sulle ossa. Altri esperimenti vengono condotti mediante voli parabolici, dove si raggiunge la condizione 0g per qualche decina di secondi, sufficienti a valutare la risposta acuta del corpo alla sua esposizione.


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Parallelamente si stanno progettando le inevitabili e necessarie contromisure per arginare le conseguenze sul corpo degli astronauti: l’esercizio fisico rappresenta quella più consolidata per contrastare gli effetti della microgravità. Gli astronauti si allenano per 2-3 ore al giorno con priorità all’esercizio aerobico, che favorisce la redistribuzione del sangue negli arti inferiori e stimola i barorecettori, contribuendo a mitigare l’intolleranza ortostatica. A questo si associa l’attività anaerobica con pesi e squat, così da sostenere la massa muscolare e limitare l’atrofia a carico soprattutto degli arti inferiori.


Tra le misure più studiate rientra la lower body negative pressure: una camera che avvolge il corpo dall’ombelico in giù in cui si induce una leggera depressione che richiama i fluidi nelle gambe. Una pressione di circa -40mmHg è sufficiente per simulare una condizione equivalente alla postura eretta sulla Terra. Il principio è riproducibile anche nelle gravity suits, tute dotate di sistemi a tensione che oppongono resistenza ai movimenti e aiutano a mantenere un livello minimo di carico sugli arti inferiori. Oltre a supportare l’allenamento, potrebbero essere utili in fase di rientro poiché comprimerebbero il tessuto degli arti inferiori, limitando un eccessivo afflusso di sangue e migliorando la tolleranza alla gravità. Alcuni progetti puntano a integrare sistemi di lower body negative pressure direttamente nella tuta stessa.


Una contromisura potenzialmente molto efficace è la centrifuga che permette di generare gravità apparente allineata lungo la direzione testa-piedi. Se ben regolata rappresenterebbe una soluzione ideale per vari sistemi fisiologici: sono già stati testati prototipi di biciclette integrati in piccole centrifughe con l’obiettivo di combinare l’esercizio aerobico con l’effetto della gravità artificiale.

Per sostenere il sistema muscolare si stanno inoltre studiando tute a stimolazione elettrica che generano contrazioni controllate, favorendo la crescita e il mantenimento del muscolo simulando un carico gravitazionale.


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Sul fronte farmacologico sono state considerate molecole come ormoni della crescita e steroidi anabolizzanti, anche se la loro somministrazione lontano dalla Terra pone problemi di sicurezza per la mancanza di monitoraggio continuo.

Il sistema scheletrico richiede interventi specifici: le piattaforme vibrali offrono stimoli meccanici utili a promuovere la formazione ossea e la gravità artificiale intermittente riduce la secrezione eccessiva di calcio, contribuendo a rallentare la demineralizzazione. L’esercizio di resistenza resta comunque centrale, soprattutto a carico degli arti inferiori, che sulla Terra sostengono forze pari a quattro o cinque volte il peso corporeo durante la camminata e lo sprint. La corsa su tapis roulant, gestita tramite imbracature che forniscono carico preserva la capacità aerobica ma risulta spesso insufficiente per mantenere la densità ossea mentre brevi intervalli di esercizio con pesi elevati e squat sembrano più efficaci. Accanto all’allenamento si considerano farmaci per l’osteoporosi, per il supporto dell’ormone paratiroideo per la prevenzione dei calcoli renali (gli stessi che prendono i nonni, sì!).


Il controllo dell’equilibrio e dell’orientamento richiede soluzioni dedicate: ausili propriocettivi come giubbotti dotati di stimolatori tattili possono fornire al sistema nervoso un segnale aggiuntivo che rappresenta il vettore gravità facilitando la stabilizzazione nei movimenti.

Infine, la gravità artificiale è un campo in espansione, in quanto sarebbe teoricamente ideale ma comporterebbe sfide ingegneristiche e costi molto elevati, con la rotazione permanente che richiederebbe un lungo periodo di adattamento.


La conquista della Luna e di Marte non comporta solo sfide tecnologiche legate allo studio di materiali innovativi o tecniche di propulsione avanzata, ma anche una sfida alla nostra biologia. Dallo spostamento dei fluidi alla perdita di massa muscolare e ossea, fino alle insidie neurologiche come la SANS, l’ambiente spaziale scatena conseguenze che non possono essere trascurate.

Fortunatamente le contromisure, quali l’esercizio quotidiano, le tute e i sistemi di compressione, l’LBNP, la stimolazione elettrica, le centrifughe e gli approcci farmacologici o nutrizionali, dimostrano che molte di queste difficoltà possono essere mitigate, anche se l’efficacia a lungo termine richiede ancora studi e perfezionamenti. La più grande sfida da affrontare nei prossimi anni per portare l’uomo su Marte sarà proprio fare in modo che possa arrivarci in sicurezza e senza complicazioni irreversibili.



A CURA DI

Edoardo Tamburrino

Fonti:

Dispense del corso “Biofluidodinamica e medicina spaziale” della prof.ssa Stefania Scarsoglio


Fonti immagini:

1. AI

 
 
 

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