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#AESASpazio - Voyager: due viandanti sul mare di plasma

Il giorno di San Valentino del 1990 è stato catturato uno degli scatti astronomici più celebri di sempre: si tratta di una foto della Terra, sospesa nello spazio e avvolta da un debole raggio solare, vista in tutta la sua fragilità e solitudine rispetto alle dimensioni del cosmo. Nessuno è riuscito a dare una descrizione migliore della fotografia di Carl Sagan nel libro “Pale Blue Dot: A Vision of the Human Future in Space”:


“That’s here. That’s home. That’s us. On it everyone you love, everyone you know, everyone you ever heard of, every human being who ever was, lived out their lives […] on a mote of dust suspended in a sunbeam. […] Our posturings, our imagined self-importance, the delusion that we have some privileged position in the Universe, are challenged by this point of pale light. Our planet is a lonely speck in the great enveloping cosmic dark.”


La “foto di famiglia” scattata da Voyager 1 nel 1990 (credits: NASA/JPL-Caltech)
La “foto di famiglia” scattata da Voyager 1 nel 1990 (credits: NASA/JPL-Caltech)

La foto, passata alla storia per l'appunto col nome di “Pale Blue Dot”, fa parte di una collezione di 60 scatti effettuati a circa 6 miliardi di chilometri dal Sole, i quali raccolgono le immagini di buona parte dei pianeti del sistema solare. Si tratta della prima vera e propria “foto di famiglia” del nostro vicinato cosmico, e questa è la storia del fotografo, la sonda Voyager 1, e del suo gemello, Voyager 2.


Queste due sonde, decollate da Cape Canaveral nell'estate del 1977 a bordo di lanciatori Titan-Centaur, hanno rivoluzionato la nostra conoscenza del sistema solare esterno e dello spazio interstellare, e a oggi sono gli oggetti realizzati dall'uomo che si sono spinti più lontano in assoluto: dopo quasi 50 anni di volo, Voyager 1 si trova a 166 unità astronomiche dal Sole (24 miliardi di chilometri, o 23 ore luce) e si allontana da noi a 17 km/s, mentre il compagno Voyager 2 si trova a 139 AU e procede a una minore velocità di 15 km/s.


Non era previsto che la missione Voyager durasse così tanto: inizialmente, il piano era di visitare Giove, Saturno e le loro lune. All'epoca la conoscenza della comunità scientifica di questi giganti gassosi era limitata a secoli di osservazione da terra, e poterli osservare da vicino ha portato a straordinarie scoperte circa la composizione delle loro atmosfere e dei sistemi di anelli che li circondano. Tra le osservazioni più importanti, la vista di vulcani attivi su Io (una luna di Giove) ha destato particolare scalpore, essendo essa la prima rilevazione di un fenomeno simile al di fuori della Terra.


Dopo aver passato Saturno, la traiettoria di Voyager 1 ha preso una piega che lo ha allontanato dal piano dell'eclittica con un'inclinazione di 35 gradi, destinandolo a un’inevitabile uscita dal sistema solare. La traiettoria di Voyager 2, invece, era stata studiata per sfruttare all’occorrenza un allineamento planetario più unico che raro: una volta ogni 175 anni, i quattro giganti gassosi del sistema solare esterno (Giove, Saturno, Urano e Nettuno) assumono delle posizioni tali per cui è possibile visitarli tutti in un unico volo con una spesa contenuta di carburante e tempi notevolmente ridotti (12 anni invece di 30). Essendo lo stato di salute della sonda più che soddisfacente, gli scienziati e gli ingegneri della NASA non si sono fatti perdere un'occasione così allettante e hanno prolungato la durata della missione.


Il passaggio di Voyager 2 nei pressi di Urano e Nettuno (prima sonda a visitare questi mondi così lontani) è stato segnato da ulteriori scoperte riguardanti vari elementi, tra cui la loro atmosfera, la composizione interna e i loro campi magnetici, raccogliendo un gran numero di foto dei pianeti e delle loro innumerevoli lune, molte delle quali osservate per la prima volta; nella stessa occasione è stato confermato il rateo di rotazione dei due pianeti su sé stessi. L'ultimo corpo celeste visitato da Voyager 2 è stato Tritone, luna di Nettuno, dopo il quale la traiettoria della sonda lo ha portato in direzione sud rispetto al piano dell'eclittica.


Nel 1989 entrambe le sonde avevano terminato il loro Gran Tour del sistema solare, avendo visitato tutti i giganti gassosi e 48 delle loro lune. Quella che doveva essere una missione di 5 anni, si era protratta già per più del doppio del tempo, ma non dava segni di cedimento: nasce in questo contesto la Voyager Interstellar Mission (VIM), ovvero il prolungamento della missione Voyager originale. Il nuovo obiettivo posto dagli scienziati della NASA era di esplorare zone ancora più remote dello spazio, in cerca di informazioni circa le caratteristiche del vento solare e dell'ambiente interstellare. Il sistema solare è situato all'interno di una “bolla” chiamata eliosfera, all'interno della quale il vento solare permea lo spazio e ci scherma dal mezzo interstellare, ovvero l’insieme di gas e polveri che si trovano tra le stelle della Via Lattea e che si mescolano a varie forme di radiazione elettromagnetica. L'eliosfera si può allora definire come la regione all'interno della quale il vento solare trasporta le proprietà dinamiche del Sole, e il suo funzionamento è in un certo senso analogo a quello svolto in piccolo dal campo magnetico terrestre.


(credits: NASA/JPL-Caltech)
(credits: NASA/JPL-Caltech)

Dal grafico soprastante si può avere un'idea delle regioni attraversate dalle sonde negli ultimi 35 anni: raggiunto il cosiddetto Termination Shock (ovvero la zona in cui il vento solare si scontra con i raggi cosmici provenienti dal resto dell'universo, rallentando notevolmente), si passa per una regione detta Heliosheat, per poi entrare nello spazio interstellare vero e proprio dopo aver superato il confine della eliopausa.


Quest'ultimo traguardo è stato raggiunto relativamente di recente: Voyager 1 è entrato ufficialmente nello spazio interstellare nel 2012, seguito dal gemello nel 2018. Importante notare che questa demarcazione riguarda il comportamento delle particelle che percorrono lo spazio, ma ciò non va confuso con i confini della sfera di influenza del Sole, comunemente indicata come il limite effettivo del sistema solare: un oggetto risente degli effetti gravitazionali della nostra stella fino a ben 50 000 unità astronomiche (dove si stima la fine della nube di Oort), una distanza pari a quasi un anno luce che richiederà decine di migliaia di anni per essere percorsa dalle sonde.


Da un punto di vista tecnico, i due spacecraft sono identici e montano le stesse attrezzature; al momento del lancio, la loro massa era di 815 kg, mentre le loro dimensioni sono quelle di una piccola automobile. Ci sono tre diversi computer a bordo, ognuno con scopi diversi (sequencing/fault detection, controllo d’assetto e raccolta di dati scientifici). La stabilizzazione nei tre assi della sonda è gestita tramite un insieme di thruster a idrazina; il sistema di controllo d’assetto di Voyager 2 è stato messo a dura prova durante l’attraversamento degli anelli di Saturno, nel corso del quale la sonda è stata colpita da migliaia di granelli delle dimensioni nell’ordine dei micrometri, i quali si trasformavano in plasma all’impatto.


La configurazione delle due sonde Voyager (credits: NASA/JPL-Caltech)
La configurazione delle due sonde Voyager (credits: NASA/JPL-Caltech)

Al momento del lancio, erano 11 gli strumenti a bordo dedicati alla raccolta di dati scientifici da spedire verso la Terra grazie alla HGA (High Gain Antenna); di essi, solo 4 sono oggi attivi per motivi di risparmio energetico (in particolare, si occupano da un lato di misurare il campo magnetico solare e dall’altro di localizzare e identificare le particelle energetiche che li colpiscono). I generatori termoelettrici a radioisotopi (RTG) alimentati con Plutonio-238 che hanno alimentato la missione tanto a lungo generano sempre meno energia (perdendo 4 watt all’anno): per questo motivo, tutti gli strumenti non essenziali per lo studio dell’ambiente interstellare sono stati spenti, mentre gli altri vengono usati a rotazione secondo un programma studiato accuratamente per prolungare il più possibile la vita della missione.


Le sonde, tuttavia, non trasportano soltanto strumenti e apparecchiature tecniche: su ognuna di esse è stato piazzato un disco di rame placcato in oro di circa 30 cm di diametro, il quale contiene un messaggio per un’eventuale forma di vita extraterrestre che dovesse mai imbattersi nell’oggetto. Il contenuto di questo messaggio consiste in primo luogo in una descrizione circa la posizione della Terra rispetto ad alcune pulsar, che si avvale di un insieme di simboli studiati per essere universalmente riconoscibili (il che andrebbe tutto dimostrato, tuttavia). Inoltre, al di sotto della copertura protettiva si nasconde un secondo disco, simile a un vinile, intitolato “The sounds of Earth”. In esso sono stati inseriti saluti in 55 lingue, una collezione di suoni naturali di ogni genere, un ampio repertorio di musica (che spazia da Bach a Chuck Berry) e una serie di immagini e video del nostro pianeta. Un campione di Uranio-238 potrà aiutare gli eventuali destinatari del messaggio a individuare il momento del lancio.


La copertura del Golden Record (credits: NASA/JPL-Caltech)
La copertura del Golden Record (credits: NASA/JPL-Caltech)

Trentaquattro minuti dopo aver scattato Pale Blue Dot, le camere di Voyager 1 sono state spente per sempre; da allora, la sonda sorveglia lo spazio interstellare alla cieca. Si stima che ci vorranno quasi 40 mila anni prima che le sonde entrino nella sfera di influenza di stelle diverse dal Sole, ma per quanto questi tempi appaiano remoti, esse saranno una testimonianza perpetua dell'esistenza della nostra specie, indipendentemente da cosa sarà successo nel frattempo sul granello di sabbia che chiamiamo Terra.


A cura di

Mattia Mocci



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