WHY SPACE?- ConferenzONA 2024

Introduzione

Di recente, lo scorso 24 maggio, abbiamo avuto l’occasione di essere partecipi all’attesissima conferenzONA, evento annuale organizzato da AESA Torino, a seguito dell’altrettanto attesa CONFERENZina, tenutasi lo scorso dicembre.

Le due conferenze hanno come obiettivo principale quello di essere occasioni che gli studenti (e non solo) possono avere per incontrare alcuni dei massimi esperti del settore aerospaziale, sentire le loro opinioni in merito ai vari argomenti dell’evento, e poter poi interagire con loro tramite domande e approfondimenti successivi.

L’oggetto della conferenzONA di quest’anno, come da titolo, è “Why Space? Esplorare lontano, ispirare vicino”, richiamo diretto al molto diffuso scetticismo che da sempre circonda i grandi investimenti che tanti governi (e ultimamente anche i privati) stanno destinando alla ricerca scientifica in ambito aerospaziale, portandoci a esplorare le motivazioni intrinseche che spingono l’umanità verso lo spazio e come le missioni spaziali abbiano portato a grandi innovazioni in vari campi tecnologici, sia in orbita che
sulla Terra.

Entrando nel vivo dell’evento, le figure di spicco che abbiamo avuto il piacere di accogliere sono, in ordine di apparizione…

Ing. Maria Antonietta Perino, Program Manager presso Thales Alenia Space dal 1986
Dott.ssa Patrizia Caraveo, astrofisica italiana inserita nell’elenco delle 100 esperte in area STEM nell’ambito del progetto “100 donne contro gli stereotipi per la Scienza”
Ing. Alessandro Balossino, capo dell’unità di ricerca e sviluppo di Argotec
Dott. Massimo Robberto, responsabile del team NIRCam, lo strumento principale del James Webb Space Telescope

…e a cui si sono susseguite le domande del pubblico, per terminare con una tavola rotonda (non inclusa nell’articolo per fini editoriali), moderata dal Dott. Antonio Lo Campo, giornalista scientifico e moderatore dell’evento, che si è occupato anche di una breve introduzione, in cui sono stati presentati gli argomenti e gli ospiti dell’incontro.

Procediamo quindi con il recap della conferenzONA 2024!



Intervento di Maria Antonietta Perino

Da quando abbiamo iniziato la nostra avventura sulla Terra, abbiamo riconosciuto questo pianeta come il nostro habitat ideale. Tuttavia, la nostra natura ci ha sempre spinti a esplorare oltre l’orizzonte, proprio come migliaia di anni fa abbiamo attraversato mari spesso inospitali e sfidanti. Oggi, ci proponiamo come i nuovi marinai di un oceano ancora in gran parte sconosciuto: lo spazio. Esploreremo il cosmo, partendo dal nostro pianeta, per poi spingerci verso la Luna, e infine estendere il nostro cammino fino a Marte.

Ci sono tante motivazioni per cui andiamo nello spazio, e tra le principali possiamo trovare:

  • la curiosità scientifica: come esseri umani, mai potremo smettere di porci alcune delle fondamentali domande che riguardano il nostro posto nell’Universo, e la ricerca in questo senso non potrà che proseguire in futuro
  • la politica: le nazioni hanno bisogno di grandi risorse per potersi permettere di andare nello spazio, ma altrettanti (se non maggiori) sono gli interessi che le potenze mondiali nutrono nei confronti di questa nuova frontiera globale. Un po’ come durante la Space Race durante la guerra fredda, in cui USA e USSR si sono opposte in una storica competizione per la conquista dello spazio, allo stesso modo i governi moderni si stanno dando filo da torcere in tutte le frontiere dello sviluppo nel settore aerospaziale, ormai in rotta di collisione inevitabile verso la Luna, per motivi (inutile negarselo) non solo scientifici, ma anche politici e militari
  • SPIN OFF E SPIN IN: con questi termini indichiamo, rispettivamente, l’arrivo di tecnologie spaziali in ambiti esterni a quelli per cui erano state inizialmente  concepite, e, al contrario, l’arrivo di tecnologie all’avanguardia di altri settori nella sfera dell’aerospazio. È così che molto del “non-space” sta entrando all’interno delle architetture spaziali, come ad esempio nel caso dell’automotive per la progettazione dei rover, veicoli che percorreranno le lande desolate dei corpi celesti del nostro sistema solare.
    Possiamo dire, nonostante tutto, che ci sia in questi termini una grande “contaminazione tecnologica”, dallo spazio verso la Terra, e dal nostro pianeta verso il cosmo.
  • ritorno economico: i moduli assemblati che compongono la Stazione Spaziale Internazionale, collegati tra loro tramite gli Interconnecting Elements (nodi veri e propri di unione tra delle cosiddette “casette spaziali”), partirono nella loro costruzione in Russia e negli USA, con i famosi Zarya e Node 1, e da lì in poi hanno sempre più visto una grande partecipazione italiana, tanto che infatti a oggi più del 50% del volume pressurizzato della ISS è stato costruito nel nostro paese.

Oltre questo, qui a Torino abbiamo preso un grandissimo impegno per quanto concerne il futuro Gateway lunare, dove lavoreremo al PPE (Power and Propulsion Element), il cui scopo sarà di fornire energia elettrica, propulsione e capacità di comunicazione alla stazione, e il modulo HALO (Habitation and Logistics Outpost), atto a fornire spazio abitativo e supporto logistico per gli astronauti, oltre ad essere un hub di attracco per veicoli spaziali. Per essere più specifici, Thales è un pre-contractor e per il 2028 si occuperà di creare la struttura primaria e lo strato di protezione dai micrometeoriti dei moduli, mentre del resto si occuperanno gli Stati Uniti.
Per il 2030, invece, Thales Alenia Space Francia si occuperà del modulo ESPRIT (European System Providing Refueling, Infrastructure, and Telecommunications), sempre destinato al Gateway, che fornirà alla stazione supporto logistico, rifornimento, telecomunicazione per le operazioni lunari, e per finire avrà una denotabile capacità di stoccaggio per i carichi scientifici e altri materiali, mentre grande tocco made in Turin sarà una grande vetrata per poter guardare all’esterno, un po’ come per la famosa cupola della ISS (anch’essa italiana, ci portiamo dietro una storia molto invidiabile, ma purtroppo i media ne
parlano pochissimo!).
In più, come se non bastasse (e qui arriviamo al punto della questione) stiamo lavorando anche ai primi due moduli della stazione privata Axiom, per via della grande richiesta in termini di laboratori, come nel caso di numerose aziende farmaceutiche, e di potenziali interessi di carattere turistico, portandoci a
concludere che la Space Economy, in quest’ottica, crei tantissimo valore aggiunto e non potrà che continuare ad espandersi in futuro.

In ogni caso, per quanto concerne gli altri progetti in Thales, abbiamo prima di tutto il Service Module, contributo Europeo a Orion, il cui principale obiettivo è portare gli umani sulla Luna nel programma Artemis, attraccando al Gateway e poi scendendo sulla superficie lunare.
Per poterci poi muovere sulla Luna, ci servirà chiaramente una vera e propria Surface Infrastructure, sulla quale stiamo spendendo molto a livello di cervello e di azienda, a partire dal lander EL3 fino ad arrivare ai satelliti per la comunicazione attorno alla Luna e all’ISRU (In-Situ Resource Utilisation), concetto fondamentale per le missioni spaziali a lungo termine, in quanto ci consentirà di utilizzare le risorse già disponibili in loco per supportare le attività lunari, senza dipendere dalla Terra per qualsiasi piccolo inconveniente o materia prima.

Infine, alzando lo sguardo verso Marte, resta ancora aperta la questione di EXOMARS, missione attualmente in stallo, in quanto nel 2016 è stato possibile lanciare il TGO (Trace Gas Orbiter) in orbità attorno al pianeta rosso, ottenendo tante informazioni relative alle grandi risorse presenti nell’atmosfera marziana, mentre la seconda parte, costituita da un rover atto a prendere risorse anche a diversi metri di profondità, è invece stata sospesa per cause belliche, in quanto in collaborazione con i russi, obbligando
l’ESA a lavorare a questo progetto senza collaborazioni esterne.

Intervento di Patrizia Caraveo

Dal punto di vista scientifico e astronomico, una delle maggiori ragioni per cui andiamo nello spazio riguarda l’osservazione degli astri, dai più vicini ai più lontani.

La luce che noi vediamo è una piccola parte della radiazione elettromagnetica che può esistere in natura, definita da un’onda. A partire da lunghezze d’onda molto elevate (onde radio) fino ad arrivare a lunghezze in scala atomica (raggi gamma), possiamo con i nostri occhi osservarne solo una porzione molto limitata, e anche i nostri strumenti sono per molti versi poco utili qui sulla Terra, per via del fatto che le radiazioni esterne a quelle radio/ottiche sono schermate dall’atmosfera, consentendo così la vita (vista la grande protezione dai raggi più dannosi per le cellule viventi) ma impedendoci di vedere oltre il muro di gas che ci circonda.

Eroina in questo campo è stata sicuramente Nancy Roman, personaggio di cui purtroppo si parla pochissimo. Fin da piccola, Nancy ha dovuto sottostare a infiniti stereotipi di genere legati al ruolo femminile nella scienza, tanto che purtroppo non avrebbe mai ottenuto la tanto da lei ambita posizione di full professor, non aperta alle donne.
Nonostante questo, sua fortuna fu il ruolo di NASA Chief of Astronomy, aperto nel 1959, troppo manageriale e poco scientifico per i suoi gusti, ma che, in visione di quanto importante sarebbe stato l’incarico nei successivi decenni, Nancy non poté che accettare. Così, lei si ritrovò a combattere a spada tratta contro l’opinione pubblica, molto scettica sul ruolo dell’astronomia e sugli investimenti che già ai tempi erano predisposti in merito. Ai tempi, gli Stati Uniti si dividevano in questo senso in due parti, cioè quella che aveva già a disposizione telescopi di una certa importanza (principalmente parliamo di Arizona e California, lato ovest degli USA), opposta alla controparte est, dove questo tipo di investimento era molto carente. È proprio in questa parte più “arretrata” che Nancy trovò maggiore supporto alla sua idea di sensibilizzazione culturale, in quanto c’era molto desiderio legato al finanziamento di vari progetti nel settore, tanto che il grande sviluppo di quegli anni è stato proprio ad Harvard.

Altro eroe di grande merito in questo campo è Bruno Rossi, emigrato negli Stati Uniti per via del padre di origini ebree, ricordato per i primi strumenti legati all’astronomia a raggi X, inizialmente tramite voli parabolici, di qualche minuto alla volta, e poi grazie al satellite Uhuru, lanciato in Kenya dalla base San Marco per via della sua posizione ideale per favorire un’orbita equatoriale, caratterizzata dal minimo numero di raggi cosmici possibili. Il nome originale era in realtà SAS1, ma si deve il nome Uhuru, dal
significato di “Libertà”, allo Swahili, essendo che il razzo Scout B utilizzato è stato lanciato durante la festa dell’indipendenza del Kenya. Dietro a questo progetto c’è anche il nome di Riccardo Giacconi, che nel 2002 ricevette il premio Nobel per il suo rivelatore di raggi X, capace di vedere sorgenti di temperatura nello spazio cosmico corrispondenti a diversi milioni di gradi.

Nel 1982 è partito poi SAS2, erede di Uhuru, seguito poi da COSB, primo dell’ESA, e da IGRET, strumento del Compton Gamma Ray Observatory della NASA, ognuno con tecnologie differenti, arrivando fino ai rivelatori di silicio e a strumenti di rilevanza ancora maggiore, come nel caso di AGILE, che ha terminato la sua attività orbitale pochi mesi fa, bruciando nel suo rientro nell’atmosfera, e poi ancora con il Fermi Gamma Ray Space Telescope, con una superficie 16 volte maggiore di AGILE.

Questi strumenti ci hanno consentito di studiare il cielo fino al livello dei raggi gamma, permettendoci di affinare molto la nostra comprensione di questo tipo di segnale e portandoci ad avere una grande visione della Via Lattea, centro del nostro sistema di coordinate. Negli studi, in particolare, siamo soliti “rettificare” la visione della nostra galassia, rendendola più facilmente comprensibile all’analisi delle informazioni e dandoci la possibilità di avere un numero di sorgenti luminose sempre maggiori, partendo
da 25 nel caso di COSB e arrivando fino a 7000 nel caso di Fermi.

La parte migliore di questo tipo di osservazione, da un punto di vista personale, è stata la scoperta che abbiamo portato a compimento io e mio marito, ossia Geminga (da Gemini), presa da COSB, sorgente di raggi gamma studiata per più di 20 anni, fino alla finale scoperta della sua identità: una stella di neutroni un po’ capricciosa, che “non guarda dalla nostra parte” e di cui quindi non riusciamo a vedere niente a livello ottico.

Purtroppo per gli astrofili, l’atmosfera non solo assorbe diversi tipi di radiazione, ma è anche turbolenta, in quanto chiaramente è molto propensa a muoversi, portando a una variabile sfocatura delle immagini, da cui deriva in primis l’idea dell’ottica adattiva, e in secondo luogo quella di un telescopio ottico da portare nello spazio, idea di cui Nancy Roman si fece sostenitrice fin da subito, incoraggiando un progetto che si avverò qualche anno più tardi: l’Hubble Space Telescope.

L’Hubble è stato rilasciato dalla baia dello Space Shuttle in orbita bassa terrestre, e ci ha permesso di arrivare di fare enormi passi in avanti a livello di astronomia, e avendo forse come suo più grande successo quello della fidelizzazione del pubblico, che ha adorato le immagini del satellite, considerate al pari di opere d’arte vere e proprie. A oggi, inoltre, l’Hubble può anche contare sull’appoggio di un suo fratello maggiore, il James Webb Space Telescope, operante sulle bande dell’infrarosso, il che gli consente di avere una precisione molto maggiore, in quanto capace, al contrario della sua controparte ottica, di penetrare le nubi cosmiche nello spazio profondo, consentendogli di vedere oltre.

Tornando a Nancy Roman, in chiusura, il suo contributo enorme nello studio dell’universo è stato riconosciuto, molti anni più tardi, tanto che il nuovo osservatorio ottico di prossimo lancio, con un campo di vista 100 volte superiore al telescopio Hubble, sarà proprio, in suo onore, il Roman Space Telescope, la cui partenza è prevista per maggio 2027.

Intervento di Alessandro Balossino

Anche io ogni giorno “faccio spazio” e sono entusiasta di andare al lavoro, come mai? Why Space?

La mia storia inizia da un accordo tra il Politecnico di Torino e la JPL (Jet Propulsion Laboratory) della NASA, in California, da cui è nato diversi anni fa un progetto di ricerca, a cui ebbi la possibilità di lavorare durante la mia tesi di laurea magistrale. A dire la verità, non sono mai stato un bambino il cui sogno era di diventare astronauta, ma ora non mi vedrei a lavorare in nessun altro ambito.

Ogni sera, guardando il cielo, come specie umana siamo stati soliti porci molte domande, del tipo:

  • cosa c’è oltre il nostro pianeta?
  • come è nato l’universo?
  • esistono altri pianeti abitabili?
  • e…se ci colpisse un meteorite?

Ebbene, dall’ultima di queste domande in particolare è nata una missione ESA/NASA, a cui Argotec ha dato grande contributo, che ci ha spinto a indagare sulla possibilità di ridirezionare un asteroide nel caso di un potenziale impatto verso la Terra, il che fa comprendere che questo tipo di studi sia indissolubilmente legato anche al nostro pianeta. Proprio a questo proposito, non ci rendiamo conto di quante siano le attività che svolgiamo ogni giorno legate allo spazio, come per esempio i sistemi satellitari di localizzazione, le osservazioni meteorologiche e del cambiamento climatico, l’ambito delle telecomunicazioni, il settore legato al monitoraggio delle infrastrutture critiche, degli aerei o delle navi (vedasi la Evergreen nel canale di Suez nel 2021, o le file di carri armati russi al bordo ucraino a Febbraio 2022), lo studio dei gas della nostra atmosfera e delle emissioni a essi legate, e molto molto altro ancora.

Da questo possiamo infatti evincere che le così definibili “infrastrutture” non siano solamente strade e ferrovie, ma a esse si leghi senza alcun dubbio anche lo spazio.

A proposito di questo, un altro aspetto importante è senza dubbio quello legato alla sicurezza, tanto che ci fu molto scetticismo di fronte alla prima presentazione della “Space Force” statunitense, ma con il passare del tempo molti altri paesi si stanno mobilitando anche in questo senso, così come è stato per la terra, per il mare e per l’aria.
Inoltre poi ancora, per quanto concerne la Space Economy, gli investimenti attuali sono qualcosa di molto promettente e ricercato, tanto che diverse stime considerano il fatto che ogni dollaro investito nel settore spaziale potrebbe riportare a un ritorno che va dai 4 ai 7 dollari.

Intervento di Massimo Robberto

Come è stato introdotto negli interventi precedenti, alcuni dei telescopi più grandi che abbiamo mai prodotto sono stati l’Hubble e il James Webb, e io ho avuto la possibilità di lavorare a entrambi, al primo per 7 e al secondo per ben 18 anni.

Lavorando al James Webb, abbiamo deciso che questo avrebbe dovuto operare nel regime dell’infrarosso, e i motivi principali sono:

  • visione delle stelle più fredde, che non producono tanta energia (e sono dunque appena nate o prossime alla morte)
  • maggior raggio di visione, per via delle polveri trapassabili
  • la luce tende, per via dell’espandersi dell’universo e del progressivo aumentare delle distanze cosmiche, ad allungarsi e a diventare rossa, necessitando quindi di uno strumento adeguato all’analisi di quel tipo di radiazione

Le caratteristiche del telescopio prevedevano inizialmente che questo fosse molto più potente e grande di Hubble, con una massa di lancio che sarebbe passata dalle 12 alle 60 tonnellate, ma il progetto venne poi completamente rivisto, per via della mancanza di un lanciatore adeguato. La tecnologia, completamente nuova, studiata per prevenire questo problema è stata quella di un “satellite transformer”, capace di partire nella sua configurazione “chiusa” per poi aprirsi una volta nello spazio, arrivando quindi a una massa finale inferiore alle 6 tonnellate, 10 volte meno della previsione iniziale, e un diametro (da aperto) di ben 6 metri, troppo per entrare direttamente in un qualsiasi lanciatore attualmente disponibile per il lancio.

Lavorando nell’infrarosso, a 10 micron di lunghezza d’onda, ogni piccolo disturbo può rappresentare un enorme problema per il corretto funzionamento della strumentazione di bordo, tanto che infatti è obbligatorio essere nello spazio più buio per non essere abbagliati, senza alcun tipo di interferenza, e dotare il telescopio di un grande controllo della criogenia, con nuovi strumenti appositi; primo tra tutti è l’ombrello, una “lasagna” di 5 strati capace di portare il “lato freddo” del telescopio a temperature che vanno dai 40 ai 7 Kelvin (da -233°C a -266°C), isolando tutta l’illuminazione proveniente dal Sole, dalla Luna e dalla Terra, con un fattore di protezione di circa 1 milione, consentendo quindi agli strumenti di osservazione di avere uno sguardo diretto, indisturbato, del fondo cosmico di radiazione. Nel “lato caldo” del telescopio sono invece presenti strumenti non strettamente legati alla cattura dei dati cosmici, come batterie/computer/radio a temperatura standard (e tassativamente a prova di radiazione).

@ Chris Gunn

Lavorare a questo progetto, in ogni caso, non è stato per niente semplice, in quanto:
-non è stato possibile lavorare solamente con il Metodo degli Elementi Finiti, considerata l’applicazione di tali soluzioni su un sistema molto più complicato
-abbiamo dovuto incastrare tecnologie mai usate prima con una schedule serratissima, e ritardi che inevitabilmente vanno a cascata, in quanto l’intero progetto potrebbe essere bloccato per via un piccolo inconveniente a una parte minore, ma comunque necessaria per proseguire alle fasi successive
-abbiamo avuto dei margini di incertezza veramente molto grandi, legati non solo ai tempi e ai fondi, ma anche al tipo di precisione richiesta; per fare un esempio, lavorando con un materiale metallico, non ci limitiamo a prendere i valori di
riferimento di quel materiale da un libro o dalle indicazioni della azienda che l’ha prodotto, ma li verifichiamo personalmente in ogni loro caratteristica, allungando notevolmente la complessità del lavoro
-abbiamo dovuto fare i conti con molti problemi in contemporanea, quali la mancanza di gravità, la necessità di una massa minima (con uso del Berillio per la struttura degli specchi primari e secondari), la dissipazione del calore con varie operazioni criogeniche e con il raffreddamento passivo (necessitante grandi superfici), l’obbligo di uno stretto controllo parassitico, e molte altre difficoltà.

I 5 strati dell’ombrello sono di Kapton, materiale plastico con un coating conduttivo atto all’eliminazione di qualsiasi forma di elettricità statica. I vari livelli hanno ognuno la superficie di un campo da tennis, e devono essere sempre tesi senza rompersi, sia nelle operazioni di prova a terra che poi chiaramente nello spazio, preoccupazione ulteriore, in quanto non abbiamo mai avuto la possibilità di provare il meccanismo di apertura in assenza di gravità.

A prescindere da tutto, saremo sempre attratti dalle più belle e spettacolari immagini che questo tipo di strumento riesce ad offrirci, ed è realmente una sfida cimentarsi in missioni di un paragonabile calibro, in quanto si dovrà sempre essere capaci di affrontare difficoltà esponenzialmente crescenti, mai viste prima, che potrebbero presentare dei cambiamenti in corso d’opera ed essere molto pressanti, anche a livello di tempo. Questo abbiamo imparato con Webb, e ora si va avanti!

Domande del pubblico

1) Si parla molto del rischio legato alla carenza di materiali fondamentali per la progettazione di tecnologie a oggi molto comuni, come i semplici smartphone. Avete un tipo di approccio particolare relativo ai materiali limitati e dal costo elevato?

“No, in realtà non abbiamo avuto enormi problemi di approvvigionamento. Il costo maggiore in questo tipo di operazione è legato alla lavorazione dei materiali. Negli specchi, come ben denotabile a un primo sguardo, usiamo l’oro, in quanto questo riesce a riflettere il 99.98% della radiazione infrarossa;
nonostante questo, in realtà ogni specchio richiede solamente 3 grammi di oro, che in termini dei miliardi spesi per la progettazione del telescopio, è un costo pressoché del tutto trascurabile, mentre la lavorazione del materiale è invece un problema molto più grosso.”

2) Durante il lancio del James Webb ci sono stati problemi di qualche tipo? Nel corso della progettazione ci sono cose che sarebbero potute andare meglio?

“Nella progettazione ci sono state molte crisi. Il momento peggiore in assoluto, che ci ha portato quasi alla cancellazione dell’intera missione, è stato a telescopio già disegnato, per la questione dei costi: eravamo già arrivati alla spesa di tutto il budget di riserva di 3 miliardi di euro, senza purtroppo essere ancora lontanamente vicini alla conclusione del progetto, che ha infatti richiesto molti più fondi e la cui data di lancio è stata rimandata di molti anni. Oltre alla riserva, bisogna infatti anche considerare i costi nascosti, come quello di operazione e gestione, spesso dimenticato perché “relativamente” minore. Per esempio, il costo di gestione annuo del 5% di una missione da un miliardo di euro ammonta a cinquanta milioni, ma un cambio di prezzo da 1 a 2.4 miliardi, come è stato nel caso di un vecchio satellite americano che abbiamo valutato in passato, porta anche ad un conseguente aumento dei costi di gestione, questione che viene spesso tralasciata, portando a dei buchi di budget non indifferenti.”

3) La durata di vita operativa del James Webb è di 5 anni, che cosa limita questo tempo?

“Abbiamo sottovalutato la vita di alcune componenti di proposito, quindi potremmo aspettarci un tempo reale di operazione maggiore dell’indicazione quinquennale, ma in ogni caso non abbiamo garanzie, in quanto ci sono tantissime variabili in gioco e quindi si è propensi ad avere solitamente un grosso margine in merito alla durata della missione.
La vita stimata, in realtà, sarà sicuramente maggiore anche per via del lancio, che è stato perfetto e ha limitato enormemente l’uso dei piccoli propulsori presenti a bordo del telescopio. Questi motori sono usati per pochi secondi ogni mese per aggiustare l’orbita attorno a L2, in quanto questa è nativamente instabile. Naturalmente, per quanto precise possano essere le correzioni, arriveremo prima o poi a terminare il carburante per l’aggiustamento della traiettoria del telescopio, il che quindi pone un obbligatorio limite al periodo di attività della missione.
A prescindere da tutto, è probabile che con il passare del tempo perderemo l’utilizzo di alcuni strumenti, come è stato con Hubble, ma chiaramente la mancanza di alcuni non preclude in funzionamento degli altri, e quindi continueremo ad estrarre dati dal James Webb per più a lungo possibile.”

Conclusione

Grazie a tutti per aver partecipato alla nostra ConferenzONA!

Siamo grati ai relatori per i loro preziosi contributi e a voi, il pubblico, per la vostra attenzione e coinvolgimento. Speriamo di rivedervi ai prossimi eventi, a presto!

A cura di
Luca Pittalis


FONTI IMMAGINI:

https://www.flickr.com/photos/nasahubble/27257304197/in/album-72157666788021647/

https://www.flickr.com/photos/gsfc/30108124923/

https://images.nasa.gov/details/Gateway-Telephoto-IAC7-Set-4k-BG_4