Erano le ore 11:39 (EST) del 28 gennaio 1986 quando lo Space Shuttle Challenger decollò per affrontare la sua decima missione, che solamente dopo 73 secondi di volo si rivelò anche l’ultima.
La missione era la STS-51-L, venticinquesima del Programma Space Shuttle della NASA, il decollo dal complesso di lancio 39 (Rampa di lancio 39A) del Kennedy Space Center era particolarmente atteso dal pubblico, in quanto a bordo del Challenger, per il progetto Teacher in Space, si trovava la prima insegnante addestrata per un volo spaziale.
L’equipaggio era composto da sette membri: il Comandante di missione Dick Scobee; il Pilota Michael John Smith; gli specialisti di missione Judith Resnik, Ellison Onizuka, Ronald McNair ed i due specialisti di carico Gregory Jarvis e Christa McAuliffe, quest’ultima era l’insegnante selezionata che avrebbe dovuto trasmettere la prima lezione di scienze dallo Spazio.
Ancor prima della partenza dello Space Shuttle gli ingegneri della NASA si erano scontrati con non poche complicazioni, infatti, il giorno previsto per il lancio era stato inizialmente stabilito per il 22 gennaio ma in seguito al ritardo della missione precedente, la STS-61-C, ed alle condizioni meteo avverse continuò ad essere rimandato di giorno in giorno.
Proprio a causa di questo continuo rimandare si era scelto comunque di procedere al lancio il 28 gennaio, nonostante le condizioni meteo non fossero ancora del tutto ottimali.
Dopo tanta attesa si poteva, quindi, dare finalmente il via alle procedure di decollo. Lo Shuttle era composto essenzialmente di tre sottoinsiemi: l’Orbiter Vehicle (OV), nel quale risiedevano gli astronauti, che dispone di tre sistemi di propulsione separati, un sistema di propulsione principale composto da tre motori a razzo criogenici (SSME), un sistema di manovra orbitale (OMS) e i motori di controllo di assetto (RCS); due Solid Rocket Booster (SRB) ed il Serbatoio Esterno (ET) che sostanzialmente aveva il compito di alimentare i tre motori principali dell’Orbiter. Le operazioni prima e durante il decollo sembravano procedere bene, come da protocollo allo scattare dei sei secondi prima del lancio si accesero per primi i tre motori principali dell’Orbiter (SSME), che passarono dal 100% delle prestazioni al 104% nell’istante in cui lo Shuttle lasciava la rampa di lancio, seguiti dall’accensione dei razzi a combustibile solido (SRB). Lo Shuttle era assicurato alla rampa attraverso dei blocchi che hanno lo scopo di mantenerlo ben saldo e che vennero rimossi da delle cariche esplosive, una volta distaccatosi dalla rampa, il Challenger era ufficialmente in volo ed a cinque secondi dall’inizio del lancio venne dichiarato dal Data Processing Systems Engineer “Liftoff confirmed”.
Durante questa parte del decollo gli SSME dovevano rallentare per evitare che le forze aerodinamiche nella parte bassa dell’atmosfera danneggiassero o addirittura lacerassero lo Shuttle, dopo quasi trentasei secondi dal lancio le prestazioni dei razzi criogenici erano diminuite fino ad arrivare al 65% per raggiungere la velocità limite.
L’inizio dei problemi si ebbe una volta superato il Mach 1, dopo circa cinquanta secondi, quando la navicella era quasi in prossimità del punto di max q, ovvero il punto di massima pressione aerodinamica sul veicolo (circa 34 KPa), infatti è proprio in questi istanti che lo Shuttle dovette affrontare il più violento taglio di vento nella storia del volo spaziale. Queste violentissime raffiche di vento portarono alla luce complicazioni che si erano verificate durante il decollo, complicazioni che, però, vennero purtroppo scoperte solo successivamente al disastro.
Dalle analisi dei video del lancio si notò che quasi dall’istante zero vi è un’emissione di fumo grigio scuro vicino al punto di aggancio del razzo a propellente solido di destra al serbatoio esterno, scia di fumo visibile per i successivi quattro secondi; la perdita era stata causata dalla forte pressione, questa, aveva distrutto la saldatura presente tra due sezioni dell’SRB destro, nonostante si trattasse di una falla importante la struttura era costruita in modo da poterla affrontare grazie alla presenza degli O-ring, guarnizioni meccaniche in gomma, l’O-ring primario avrebbe dovuto intervenire, infatti, sigillando il foro presente ma a causa dell’eccessivo gelo questo aveva praticamente perso tutte le sue proprietà elastiche, ma, grazie al principio della ridondanza, che in campo aerospaziale è alla base della sicurezza di ogni veicolo, la struttura dispone anche di un O-ring secondario che però in questo caso non risultava utilizzabile in quanto i lembi dello squarcio, piegandosi, lo avevano bloccato, un sigillo provvisorio venne creato dagli ossidi di alluminio prodotti dalla combustione del carburante, che agirono cessando la fuoriuscita del fumo dal razzo.
Le raffiche di vento incontrate dallo Shuttle lo sottoposero ad una forza trasversale causando forti fluttuazioni che spaccarono il velo di ossido presente nello squarcio, la pressione interna del SRB di destra, a quel punto, iniziò a diminuire a causa della falla nella giunzione.
Nel punto in cui in precedenza era stato avvistato il fumo iniziò a crearsi un pennacchio di fuoco ben definito che si spostò rapidamente verso il serbatoio esterno cambiando forma, questo era un segno evidente del fatto che vi fosse una fuoriuscita nel serbatoio di idrogeno liquido nella porzione inferiore dell’ET, come conseguenza anche la pressione del serbatoio esterno di idrogeno liquido inizia a calare rapidamente, indice di una perdita considerevole.
Il sistema di controllo del volo dello Space Shuttle tentò di agire per contrastare le forze causate dal fuoco, spostò il vettore di spinta del razzo di sinistra per contrastare l’imbardata derivante dalla falla nel razzo di destra con conseguente riduzione nella forza di spinta di quest’ultimo e l’ugello del motore principale ruotò sotto il controllo del computer per compensare lo sbilanciamento di spinta prodotta dal razzo; nonostante ciò le conseguenze del divampamento delle fiamme sono ormai troppe per essere contrastate ed infatti proprio nel punto di giunzione tra l’SRB destro ed il serbatoio esterno, dove vi era lo squarcio, avvenne il distacco, tutto successe nella frazione di un millesimo di secondo, la cupola di poppa del serbatoio di idrogeno liquido diruppe, producendo una forza propulsiva che la spinse verso il serbatoio esterno (nel quale vi era ossigeno liquido), il razzo di destra, nello stesso istante, ruotò e colpì la struttura di ancoraggio nella parte del serbatoio di ossigeno.
Questo è stato l’istante in cui tutte le strutture hanno ceduto, quasi simultaneamente, infatti, in seguito alla disintegrazione del serbatoio esterno, il Challenger (che viaggiava a Mach 1.92 a 14.000 metri di quota) venne completamente avvolto dalle fiamme e virò dall’assetto corretto, distruggendosi in mille pezzi.
I due SRB, invece, si distaccarono e continuarono a viaggiare in modo indipendente in quanto erano strutture capaci di resistere a carichi aerodinamici maggiori.
Gli investigatori non sono certi di quando avvenne la morte dell’equipaggio, si cercò in ogni modo di ricostruire i fatti analizzando i parametri di quota, velocità e pressione in modo da capire se sopportabili dal corpo umano, ma non si riuscirono a trovare molte risposte, la conclusione avvenne il 28 luglio 1986, quando l’ammiraglio Righard H. Truly pubblicò un rapporto dello specialista biomedico Joseph P. Kerwin, il quale in seguito ad altre indagini dichiarò infine che la causa della morte degli astronauti del Challenger non poteva essere determinata con certezza in quanto le forze alle quali era stato sottoposto l’equipaggio durante la rottura dell’Orbiter non erano sufficienti per causarne la morte o ferite gravi, è però possibile che l’equipaggio perse conoscenza nei secondi seguenti la rottura dell’Orbiter a causa della perdita di pressione in volo della cabina nel quale risiedeva, purtroppo il brusco impatto che questa ebbe sulla superficie dell’oceano cancellò le prove del danno avvenuto nei secondi successivi all’esplosione.
In seguito a questo incidente ci si chiese se l’equipaggio avesse potuto sopravvivere con l’utilizzo dei seggiolini eiettabili, presenti in missioni precedenti, ma si constatò che comunque non tutti i membri dell’equipaggio sarebbero riusciti ad evadere dall’abitacolo, in quanto questo dipendeva dalla loro posizione; dopo la perdita del Challenger venne comunque progettato un nuovo sistema di salvataggio di emergenza ma che, date le particolari condizioni in cui si trovava lo Shuttle, non sarebbe riuscito a garantire una via di fuga agli astronauti.
Tutto ciò che è stato descritto, per chi in quel momento aveva gli occhi rivolti verso il cielo, per i parenti delle vittime, per gli alunni orgogliosi della loro maestra, è durato solo un’istante alla loro vista, quel settantatreesimo secondo che non sarà mai dimenticato.