Il 14 Settembre 1966, l’astronauta Richard Gordon attaccò al modulo Gemini una linea di collegamento di circa 30 m. Questa linea collegava il modulo con l’Agena target Vehicle, al quale Gemini era attraccato. Dopo che fu ritornato a bordo la capsula venne staccata dall’Agena e, una volta tesa la corda che univa i due velivoli, il pilota agì sui razzi di controllo d’assetto impartendo al sistema una rotazione di circa 2 gradi al secondo. Questo lento movimento rotatorio creò una lieve forza centrifuga, equivalente a circa un millesimo della gravità terrestre, che spinse gentilmente gli astronauti sul loro posto. Era la prima volta nella storia dell’uomo che veniva creata gravità artificiale in un modulo abitato.
Con questo esperimento gli astronauti volevano provare due cose: la prima era che attraverso una semplice rotazione era possibile mantenere in orbita due velivoli senza che essi collidessero tra di loro. La seconda era che l’accelerazione creata fosse sopportabile dall’equipaggio e non creasse “discomfort”. Dopo aver attestato quest’ultimo punto però, rimaneva aperta una domanda: la gravità artificiale era in grado di sopperire alla mancanza di gravità?
Prima di rispondere, bisogna indagare sugli effetti che l’assenza di gravità provoca al nostro corpo. Fortunatamente, dopo vent’anni di operatività della stazione spaziale internazionale, sono stati raccolti abbastanza dati da fornire un quadro generale soddisfacente. I due sistemi più problematici sono il sistema cardiovascolare e quello muscolo-scheletrico.
Una volta in orbita, il sistema cardiovascolare subisce marcate variazioni: già dopo poche ore si verifica il fenomeno del fluid shift, ovvero lo spostamento di circa due litri di fluidi corporei verso l’area toracica. Questo provoca una diminuzione del volume delle gambe, con conseguente riduzione della circonferenza delle stesse fino al 30% (sindrome delle gambe da pollo). Vi è poi una diminuzione di circa il 20% del volume totale di sangue, seguita da una diminuzione del 10-15% della massa muscolare cardiaca. Questi cambiamenti diventano critici al momento del ritorno in una condizione di gravità. Il sistema cardiovascolare è infatti messo a dura prova all’atterraggio: una volta a terra gli astronauti non riescono a mantenere la posizione eretta e devono rimanere supini per evitare di perdere conoscenza. Questo fenomeno prende il nome di intolleranza ortostatica. L’intolleranza ortostatica è tanto più severa quanto più di lunga durata è stata la permanenza nello spazio e attualmente rappresenta un problema irrisolto per voli di lungo termine. Per ritornare alle condizioni pre volo infatti possono volerci fino a sei settimane. Per quanto riguarda il sistema muscolo-scheletrico invece, la permanenza in un ambiente di microgravità causa fino al 50% di perdita di massa muscolare (senza l’adozione di adeguate contromisure) e accelera vertiginosamente il processo di perdita di tessuto osseo, causando osteporosi. In microgravità quest’ultima è particolarmente più marcata rispetto alla Terra. Il rischio di fratture aumenta al ritorno in un ambiente di gravità e vi è la possibilità di danni irreversibili allo scheletro.
Queste problematiche risultano particolarmente critiche per viaggi spaziali di lunga durata, come un viaggio verso Marte, che richiedano da subito l’operatività degli astronauti una volta atterrati.
Per ridurre le alterazioni causate dall’ambiente di microgravità sono state sviluppate nel tempo diverse contromisure. La più rilevante tra queste è l’esercizio fisico. Tuttavia, nonostante tutte le contromisure ad oggi trovate si siano dimostrate efficaci, esse non riescono ad eliminare completamente i problemi dovuti al passaggio da un ambiente di microgravità ad un ambiente con gravità simile a quella terrestre. Se gli astronauti fossero costantemente sotto l’azione di una gravità artificiale, attraverso uno spacecraft posto permanentemente in rotazione, questo problema non sorgerebbe.
D’altro canto la creazione di un sistema di questo tipo, che risulti anche abbastanza confortevole per gli astronauti non risulta attualmente necessaria. Il suo sviluppo sarebbe inoltre estremamente costoso. Per la creazione di gravità artificiale paragonabile a quella terrestre sarebbe necessario infatti che lo spacecraft venga posto in rotazione con una velocità di dieci giri al minuto e con un raggio di ben 12 m.
Nonostante questo, è possibile sfruttare la gravità artificiale in scala ridotta come contromisura. Nel 1998 con la missione NASA Neurolab si dimostrò come l’utilizzo di una centrifuga, nella quale l’astronauta veniva esposto a gravità artificiale per poche decine di minuti al giorno, riuscisse a minimizzare l’intolleranza ortostatica e a ridurre il decondizionamento del sistema cardiovascolare. L’accoppiamento tra centrifuga ed esercizio fisico permetterebbe inoltre la diminuzione della quantità di esercizio giornaliera necessaria per rimanere in salute.
Allo stato attuale delle nostre conoscenze, sappiamo che gli effetti della microgravità sul nostro organismo sono marcati e potrebbero rappresentare una barriera insormontabile per viaggi di lunga durata, soprattutto se questi ultimi prevedono l’atterraggio su altri pianeti. La creazione di gravità artificiale nello spazio potrebbe rappresentare una possibile soluzione. Se diventerà o meno ciò che ci permetterà di diventare una specie interplanetaria, questo è tutto da vedere.
Fonti:
Von Braun, Wernher. Space Frontier, 1968
Scarsoglio, Stefania – Politecnico di Torino. Lezioni tenute per il corso di “Fluidodinamica nel volo spaziale”