57 anni fa, il 23 marzo 1965 alle ore 14:24 UTC, il vettore Titan II, un missile balistico intercontinentale modificato, lasciava la piattaforma di lancio di Cape Canaveral dando inizio alla missione Gemini III, il primo volo del programma Gemini ad avere un equipaggio di due astronauti. A bordo della capsula trasportata dal lanciatore vi erano infatti Gus Grissom, veterano già coinvolto nella missione Mercury VII, e John Young, pilota ed ingegnere aeronautico al suo primo volo spaziale.
La missione fu breve, della durata di circa 5 ore, e si concluse con successo dopo che la navicella ebbe compiuto tre orbite intorno alla Terra, ma nonostante ciò raggiunse importanti traguardi, accorciando le distanze tra noi e le stelle.
Le missioni Gemini erano pensate come ponte tra i programmi Mercury ed Apollo. Il primo, iniziato nel 1958 e terminato nel 1963, aveva come obiettivo principale indagare la fattibilità del volo umano nello spazio, nello specifico ricercando soluzioni per manovrare una navicella spaziale abitata in orbita intorno alla Terra e per consentirne il rientro garantendo la sicurezza dell’equipaggio, oltre che valutando la risposta dell’organismo all’ambiente spaziale. Il celebre programma Apollo, attivo dal 1961 al 1972, aveva invece come scopo fondamentale portare l’uomo a camminare sul suolo lunare.
Prima di poter svolgere con sufficienti garanzie di successo una missione che prevedeva di atterrare su un corpo celeste diverso dalla Terra dovevano però essere affrontate moltissime nuove sfide tecnologiche e scientifiche. Questo gap conoscitivo venne coperto dal programma Gemini, sviluppato tra il 1964 e il 1966, che aveva come compito sviluppare e testare le abilità e gli stumenti necessari al raggiungimento della Luna operando però in orbita terrestre, dunque in un ambiente maggiormente conosciuto e rispetto al quale era relativamente più semplice intervenire in caso di eventuale malfunzionamento. Il principale aspetto positivo dell’operare i test in ambiente terrestre era però ovviamente la sua vicinanza, fatto che lo rendeva uno spazio più accessibile, in particolare in termini di costo di lancio.
Tra le conoscenze che il programma Gemini si prefiggeva di sviluppare vi era in particolare la possibilità di controllo della capsula spaziale direttamente da parte degli astronauti, consentendo dunque le manovre di rendez-vous e docking che sarebbero state necessarie per implementare il Lunar Orbit Rendez-vous, ovvero il ricongiungimento del lander di ritorno dal suolo lunare alla navicella madre posta in un’orbita di attesa. Doveva inoltre essere dimostrata la fattibilità di missioni di lunga durata, fino a 14 giorni, testando la resistenza tanto dello spacecraft quanto dell’uomo a bordo e quest’ultimo doveva essere in grado di operare al di fuori della capsula spaziale in sicurezza. Le diverse missioni Gemini infine consentirono il perfezionamento delle tecniche di rientro in atmosfera.
La missione Gemini III in particolare aveva come obiettivo fondamentale testare la manovrabilità della nuova capsula: durante il volo vennero infatti azionati per la prima volta dei thruster che permisero di modificare la dimensione dell’orbita, scendendo ad una quota inferiore, e anche di variarne il piano orbitale.
Un altro importante traguardo raggiunto fu l’utilizzo, per la prima volta, dell’automatic water expulsion system, equipaggiamento che aveva il compito di espellere getti d’acqua nel plasma di rientro in modo tale da controbilanciare il blackout delle comunicazioni che si verificava nella fase di discesa. Durante il rientro infatti l’attrito con l’atmosfera e le elevate velocità provocano un surriscaldamento dell’aria intorno alla capsula con conseguente ionizzazione della stessa e formazione di plasma in grado di bloccare le comunicazioni.
Vennero anche condotti esperimenti biologici di diverso tipo durante la missione: furono monitorati in tempo reale i parametri fisiologici dell’equipaggio mediante elettrocardiogrammi, sensori di temperatura e di pressione sanguigna e si condusse inoltre uno studio relativo alla sinergia degli effetti della radiazione e della microgravità sui globuli bianchi.
E, come nella maggior parte delle missioni spaziali, anche in questo caso non mancarono gli aneddoti curiosi. Il pilota comandante infatti denominò la capsula ‘ Molly Brown’, nome derivato da un musical di Broadway che raccontava la storia di una donna scampata al naufragio del Titanic, in riferimento alla precedente missione Mercury del comandante Grissom nella quale la capsula era affondata dopo lo splashdown al rientro. Questa fu l’ultima missione Gemini della quale gli astronauti poterono scegliere il nome. Nome che però fu di buon auspicio perché la missione si svolse sostanzialmente senza inconvenienti, a parte alcuni problemi minori e la comparsa a bordo di un panino introdotto di nascosto dal pilota Young sulla navicella, le cui briciole avrebbero potuto danneggiare i componenti elettronici, pericolo fortunatamente scampato.
Fonti:
https://www.nasa.gov/mission_pages/mercury/missions/program-toc.html
https://lsda.jsc.nasa.gov/Mission/miss/19
https://www.nasa.gov/mission_pages/apollo/missions/index.html